Testimonianza

In appendice a A. Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, 2a edizione, Bari, Laterza, 1947, pp. 139-142.

TESTIMONIANZA

Appartengo alla generazione infelice nata allo scoppio della prima guerra mondiale, cresciuta sotto il fascismo, educata da insegnanti per lo piú indifferenti, spesso zelanti conformisti, quasi sempre nazionalisti e devoti ad una concezione ammirativa del passato nazionale che non poteva non produrre una deformazione vistosa nella mente e piú nell’animo dei giovani. Ché era sopratutto l’animo istintivo ed ardente dei giovani migliori che veniva facilmente vinto da coreografiche visioni di una gloria passata, dai miti dell’attivismo, da un’incontrollata esaltazione dell’istinto avventuroso e irrequieto. E gli uomini di età, specie tra i borghesi,. tranne poche eccezioni, non facevano nulla per allontanare i giovani da una seduzione che essi dovevano sapere alcinesca, da una mentalità che essi potevano confrontare con quella di un tempo piú libero e che invece spesso raccomandavano e giustificavano in mille modi avvalorando l’impressione giovanile che un mondo strano, discorde, senza luce, fosse scomparso per dar luogo ad un mondo in cui tutto sembrava tendere a qualche grande lontano scopo. Nel 1931 conobbi Capitini, allora segretario della Scuola Normale di Pisa, quando vi entrai studente di lettere: la sua superiorità morale e intellettuale fu ciò che subito mi colpí, ma troppo nuove mi giunsero le sue idee di nonviolenza, di noncollaborazione, sí che in un primo tempo proprio la sua saltuaria vicinanza a Perugia, dove egli era tornato dopo aver lasciato la Normale per non prendere la tessera, e dove io tornavo nelle vacanze, costituiva per me una fonte di crisi sempre crescente che culminò in un distacco totale e fremente, in una rivolta di tutto l’animo contro i metodi dell’oppressione scoperti sotto il velo del corporativismo, della rivoluzione dall’interno ecc. Ho detto «animo» e infatti Capitini e il suo libro che io lessi mentre lui lo componeva e che non fu per me una novità alla sua uscita nel ’36, furono per me e per tanti altri giovani intellettuali non parole di dottrina e saggezza libresca ma nutrimenti dell’animo, un sicuro e radicale sfollamento dall’animo di ogni residuo accumulatosi per anni ed anni, di ogni suggestione penetrata attraverso la letizia di una scampagnata, di una gara sportiva e che pochi ragionamenti non bastano a cancellare da cuori giovanili ed ardenti. Questa fu l’opera compiuta da Capitini direttamente e dal suo libro presto diffuso fra i giovani e dai giovani, dai migliori letto con tanta avidità quanto piú si scostava da un puro libro di filosofia, quanto piú parlava di problemi che rivelavano l’uomo, nascosto sotto un’educazione falsa e conformistica.

Mi ricordo dell’impressione prima curiosa poi avvincente che il libro ebbe fra alcuni miei compagni in una scuola di allievi ufficiali e l’iniziale incredulità sostituita da pensose discussioni che se anche si attaccavano su problemi precisi e contrastati (il vegetarianesimo, la nonviolenza) puntavano implicitamente su di un’ansia comune che in quegli anni oscuri cresceva e si precisava accresciuta dalle avventure e dai delitti fascisti: Abissinia, Spagna. Quella parte cosí poco eloquente, quel discorso nutriente ed acceso rimanevano come la voce piú generosa, meno pedantesca e pur cosí sorvegliata, di una coscienza che si diffondeva contro il fascismo e che guadagnava sempre piú fra gli intellettuali giovani e passava fra amici e popolani. Giovani e giovani che ora sono socialisti come me, comunisti, azionisti, vennero risvegliati e salvati da quelle parole e da quel libro che diventò il punto di raccolta in una propaganda che per merito di Capitini e di alcuni di noi stessi preparò una generazione che non aderí magari ai problemi che lí erano posti nella loro formulazione, ma ne assunse il valore fondamentale di educazione etico-politica tanto piú profonda perché partiva in lui da una premessa religiosa, perché non puramente logica o storica, perché capace di vivere oltre le formule ed i problemi singoli, come sollecitazione continua ad un senso della vita che non si può realizzare automaticamente o chiusi in tensioni puramente pratiche. Ché questi mi paiono i punti essenziali del risultato di quel libro fra i giovani: aver contribuito a formare una generazione (ora per lo piú sui trent’anni) che si differenziò ed agí in partiti diversi, ma che mantiene un fondo di interesse profondo, umano che un’educazione freddamente politica non avrebbe dato, un desiderio di attività cosciente senza sfondi mitologici, una volontà di apertura veramente democratica in ogni azione. E diciamolo pure, una generazione chiaramente di sinistra per un inevitabile senso di autogoverno, di dignità di tutti gli uomini che si esercita in una libertà senza privilegi, in una fratellanza concreta, ed è bello per noi sapere che il libro di Capitini non ha nutrito neppure uno dei giovani reazionari contro cui quelle parole risuonarono con non minore forza che contro il fascismo, contro ogni dogmatismo, contro ogni ingiustizia politica e sociale.